Un’ipotesi sulla nascita della Musica Trobadorica
Mirko Virginio Volpe
Toceno, Giugno 2023
Guglielmo VII conte di Poitou e IX duca d’Aquitania, il cui governo durò dal 1087 al 1127, è da chiunque considerato il primo trovatore documentato. Ma nulla si genera dal nulla, ed il nonno di Eleonora d’Aquitania non creò la poesia occitana che invece aveva origini molto più antiche. Le liriche di Guglielmo si sono conservate fino ai nostri giorni soprattutto grazie all’alto grado sociale del loro autore; la poesia occitana invece, forse perché più popolare, non fu ritenuta degna di scrittura ed è un prodigio che qualche cosa sia giunta fino a noi.
Dal IX/X secolo, più vecchia di circa 200 anni rispetto a Guglielmo IX, ci giunge una poesia in volgare, simile ad una cantilena, ancora intrisa di rituali popolari ancestrali: Tomida Femina
«Tomida femina
in tomida via sedea;
tomid infant
in falda sua tenea;
tomides mans
et
tomidas pes,
tomidas carnes
que
est colbe recebrunt;
tomide fust
et
tomides fer
que
istæ colbe donerunt.
Exsunt en dolores
d’os en polpa
de curi in pel
de
pel in erpa.
Terra Madre susipiat dolores.»
«Una donna gonfia
in gonfia via sedea;
un infante gonfio
in grembo tenea;
Mani gonfie
e gonfi i piedi,
gonfia la carne
che avrà questo colpo;
gonfio il barile
e gonfi i ferri
che daranno questo colpo.
Il dolore va via
dalle ossa alla carne,
dalla carne alla pelle,
dalla pelle ai capelli,
dai capelli all’erba;
Madre Terra il dolore ricevi.»
Questa poesia era forse una formula d’incantesimo e la si ritrova scritta al margine di una pagina in un manoscritto latino, riportata capovolta rispetto al resto del testo. La sua funzione ad oggi è ignota: sono state avanzate varie ipotesi tra le quali che questa formula venisse salmodiata dalle levatrici dei secoli precedenti al X mentre si accingevano a fare il loro mestiere.
Dal X secolo proviene un vero e proprio documento letterario: poesia ibrida con versi in latino e ritornello in provenzale, contenuta nel manoscritto vaticano Regina 1462.
Questo componimento è un’Alba, genere letterario nel quale due amanti lamentano il sorgere del sole che porrà fine al loro incontro amoroso. La forma poetica dell’Alba godrà di enorme successo presso i trovatori per tutto il periodo di vita della loro elegante poesia.
Ecco il ritornello in volgare:
«L’alba part umet mar atras sol
Poy pas abigil miraclar tenebras;»
«L’alba, di là dall’umido mare, dietro
il poggio, passa vigile a spiar entro le tenebre.»
Del secolo XI invece è la cobla “Las, qu’i non sun sparvir, astur”, anch’essa appuntata ai margini di un manoscritto di autore anonimo ed interessante perché, nello stesso periodo di Guglielmo IX, utilizza già alcuni dei luoghi comuni della poesia trobadorica ancora embrionale.
Eccola:
«Las, qui non sun sparvir astur,
qui podis a li vorer,
la sintil imbracher,
se buchschi duls baser,
dussiri e repasar tu dulur.»
«Ahi, non esser sparviero o astore!
che potrei a lei volare,
la gentile abbracciare,
la bocca dolce baciare,
calmare e placare il tuo dolore.»
Il seme della celebrazione dell’amore profano in lingua volgare è stato gettato e sta già germogliando, ma chi fu dunque a generare la poesia trobadorica?
Forse suo padre fu il canto sacro e sua madre la musa popolare, la quale non venne mai meno nel mezzodì della Francia.
La poesia popolare fin dalla caduta dell’Impero Romano vagabondava di contrada in contrada cantata da musici errabondi, saltimbanchi e mimi.
Ora, nel X secolo, queste figure divennero “histriones”, “joculatores” e “ministrales”, e dei loro spettacoli si dilettavano sia baroni che popolani.
Erano invece odiati e considerati immorali dai clerici e dagli ecclesiastici che scrivevano inni e poesie in Latino, del loro disprezzo abbiamo testimonianze risalenti persino al VII secolo!
Il filosofo e teologo Alcuino, consigliere di Carlomagno, definisce “turpissimo” questo nuovo linguaggio poetico: la poesia doveva essere un diletto dei laici, oppure servire Dio. Durante il regno di Carlomagno il Latino era riservato ai documenti ufficiali, mentre il volgare era utilizzato per dialogare, pregare e… cantare!
Ogni persona infatti doveva poter parlare, pregare e cantare, ma il Latino e la cultura in generale erano riservati a chi aveva studiato e se così non era, che fossero villani o feudatari, l’unica fonte culturale della quale potevano avvalersi erano i cantori e le cantrici di piazza. Ma sulla fine del secolo X la feudalità francese meridionale addolcisce a poco a poco i costumi e la vita; ed ecco germogliare dal gagliardo tronco feudale il fiore della cavalleria.
I cantori migliori seguirono immantinente questo movimento; il joculator (da non confondere con il juglar) passò dalla piazza alla sala del castello mutando in trovatore e poeta, cosi come il canto popolare dei campi e della taverna cangiò in canzone armoniosa e grave.
Mi si conceda ora di fare un passo indietro per parlare un poco di musica liturgica.
Siamo alla morte di Carlomagno: il suo impero era enorme e con la sua scomparsa molte cose irrimediabilmente iniziarono a mutare, anche in fatto di disciplina ecclesiastica. Con la liturgia Romana imposta da Carlomagno vennero fondate in Francia e Germania delle Scholae Cantorum sull’esempio di quelle del Laterano e del Vaticano. Maestri di musica romani giunsero da Roma ad insegnare divenendo presto delle celebrità, essi infatti non si limitarono ad ammaestrare i chierici nella scienza musicale, ma attesero a comporre essi stessi altre melodie e a farne comporre dai loro allievi.
Nacquero dunque le sequelae o sequentiae: interminabili gorgheggi sull’ultimo “A” dell’Alleluia del Graduale: saranno anche state per certo di grande valore musicale, ma così lunghe da affaticare polmoni, ugole e memoria di chiunque si accingesse ad eseguirle!
In Svizzera, a San Gallo, erano estremamente preoccupati per questo problema e si cercava un espediente per facilitare queste affannose esecuzioni canore quando, dai monaci di Jumièges in Francia, giunse la notizia che essi avevano iniziato a sostituire alla vocale “A” delle parole, dunque a ciascuna sillaba corrispondeva una nota, a ciascuna nota una sillaba.
Questa notizia giunse a San Gallo verso l’anno 860, in quel tempo nell’abbazia erano in vita Hartmann, Ratperto, Tutilone ed il celebre Notker. L’entusiasmo fu immediato, ma Notker pensò che le nuove aggiunte non potessero limitarsi ad un mero espediente mnemonico, ma che dovessero anzi avere anch’esse un valore letterario. Iniziò dunque a comporne dando vita alle prime Prosae. Anche se questi cambiamenti nascevano da una necessità pratica e la musica, per il momento, rimaneva immutata, questa idea era una novità, e ieri come oggi le novità non piacciono molto alla Chiesa di Roma.
Ad ogni modo ormai le aggiunte di Notker avevano aperto una breccia nelle mura della liturgia: Hartmann e Ratperto, confratelli di Notker, iniziarono infatti a comporre nuove musiche oltre alle parole e questa trovata dei monaci di San Gallo ebbe enormi conseguenze.
Queste nuove aggiunte vennero chiamate “tropi”.
In breve tempo i tropi divennero una moda inarrestabile: Tropari e Prosaria iniziarono ad apparire in tutta Europa già dal IX secolo ad uso di chiese Francesi, Tedesche ed Italiane. Le melodie dei tropi infatti erano irresistibili, eleganti, raffinate.
Circa nel XII secolo i tropi mutarono in vere e proprie canzoni rimate ormai distaccate dai testi liturgici e proprio dai tropi derivano le origini delle voci “trobar” e “trouv’erc”, parole che nei secoli successivi daranno vita ai termini “trovatore” e “troviere”.
I trovatori erano dunque quelli che componevano musica e poesia, che “trobavano” o “tropavano”, insomma: trovavano i tropi!
Torniamo ora alla musa popolare, essa donò alla poesia aulica e cortese quelle che diverranno le sue principali forme poetiche: la ballata, la pastorella, l’alba, la ronda; fiori selvatici e meravigliosi che vennero coltivati ed ornati dall’arte dei trovatori, senza che freschezza e profumo ne venissero guastati.
Ed ecco ciò che si può congetturare con molta probabilità: la rustica ed antica poesia del volgo, raffinata attraverso l’eleganza di tropi e sequenze liturgiche diede vita alla poesia trobadorica.
Inoltre la musica liturgica ed i canti popolari erano i due veicoli principali attraverso i quali la musica poteva esistere, se non addirittura gli unici.
Non deve quindi stupire che queste due influenze insieme potessero generare qualche cosa di nuovo.
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