Riguardo alla dicotomia tra Giullare e Trovatore
Mirko Virginio Volpe
Luglio 2023
Trovatori, trobairitz e giullari: l’immaginario comune al giorno d’oggi ignora quasi del tutto la figura delle trobairitz e per quel che concerne giullari e trovatori, spazia tra il “jolly” delle carte da gioco, cioè a dire un folle dal riso facile che fa lazzi con tanto di cappello con campanelli; oppure, nel migliore dei casi, randagi liutisti con chaperon rinascimentale che gironzolano a cavallo.
Saranno anche complici la cinematografia e la letteratura che non hanno indagato a sufficienza prima di trarre delle conclusioni, fatto stà che persino nei secoli medievali tali incertezze linguistiche erano già presenti.
Il nostro racconto non pretende di far luce laddove non c’è mai stata, eppure sarà interessante capire come queste terminologie siano nate e si siano intrecciate nel tempo, azzardando anche delle intriganti ipotesi e giungendo forse infine, grazie alle fonti, ad una conclusione: cioè che la figura del giullare, esistente fin dall’antichità, intorno all’anno 1000 abbia sposato l’ambiente feudale, dal quale traeva maggior beneficio morale e pecuniario, abbandonando le piazze e le campagne che divennero l’ambiente di artisti non professionisti.
Presto però anche questi ultimi iniziarono ad invadere le corti arrecando “grande danno alla giulleria” e facendo nascere nelle personalità più affermate il desiderio di creare una distinzione tra chi dell’arte ne faceva una professione e chi invece la viveva in maniera amatoriale. Dunque grazie all’utilizzo del termine trovatore, fino al XIII secolo accostato senza alcuna differenza a quello di joglar, si tentò di separare chi era in grado di “trobare” nuovi suoni e versi raffinati da chi invece si limitava ad eseguirli o il cui repertorio era legato alla tradizione popolare.
Inizieramo quindi la nostra indagine partendo dalla figura del giullare che ci porta ad indagare nell’antichità, poiché queste figure rappresentavano lo sviluppo di una lunga tradizione di istrioni e mimi che fin dal periodo classico intrattenevano le genti attraverso l’arte.
Istrione deriva al latino histrio-nem e dall’etrusco híster, cioè originario dell’Histria, regione confinante con l’Illiria da cui si crede giungessero nella Roma antica i primi commedianti.
Le leggi romane consideravano abbastanza infame questa professione, ma non andarono al di là del negare agli istrioni l’esercizio di alcuni diritti. Guerra spietata invece venne loro mossa dal Cristianesimo il quale, fin dalle sue origini, temé nell’istrionismo un elemento di conservazione del culto pagano. Non fu una lotta, bensì una soppressione intensa che durò secoli interi in tutto il territorio del Cattolicesimo e tra le prime vittime di questa crociata ci fu il teatro letterario, ambiente naturale di attori, mimi ed istrioni.
Dalla caduta dell’Impero Romano, con il passare degli anni, la Tragedia e la Commedia si rarefecero finendo col ridursi a semplice oggetto di lettura riservata ad un auditorio di classe elevata. La loro esibizione in pubblico mutò: è assai probabile che nei secoli altomedievali venissero interpretate da un solo esecutore, magari molto abile nell’accompagnarsi con uno strumento e nel mutar voce a seconda de’ personaggi. Nel frattempo anche gli edifìci dedicati agli spettacoli furono abbandonati e andarono in rovina, spesso spogliati dei marmi per riciclo o trasformati in castelli e fortilizj.
Ma qualche cosa si salvò da questa oppressione, e ciò fu la figura dell’intrattenitore. Per il clero infatti non fu difficile chiudere i teatri e disperdere le compagnie, ma sopprimere nel popolo la passione per quei piccoli spettacoli scenici che gli istrioni meno illustri erano soliti allestire nelle campagne e nelle piazze delle città era praticamente impossibile.
Messe in scena forse di un professionismo inferiore rispetto ai secoli precedenti, ma la ragione è da attribuirsi alle difficoltà che queste coraggiose figure dovevano affrontare per potersi esibire, nonostante fossero la gioia del popolo.
Saltatores, balatrones, thymelici, nugatores, scurrae, bufones, gladiatores, praestigiatores, falestritae; ecco alcune delle denominazioni utilizzate dagli scrittori latini per designare questi intrattenitori; con joculator invece troviamo a volte indicati gli artisti considerati di grado più elevato: poeti, cantanti, musicisti.
Dai testi giuridici e canonici del tempo dovremmo aspettarci massima precisione, eppure purtroppo nemmeno questi documenti riescono a fare un poco di luce sulla questione della terminologia histriones-mimi-joculatores. La ragione probabilmente è che, proprio come nell’antica Roma, non c’era un grande interesse nel fare distinzione tra le varie tipologie di artisti, ritenendoli tutti più o meno uguali e passibili delle medesime sanzioni.
Il termine “giullare” deriva dal latino joculator, a sua volta proveniente da jocus (scherzo, gioco); tuttavia, benché la forma latina nasca in epoca classica, l’uso del termine si diffonde solo nell’altomedioevo poiché è dal V/VI secolo che tende a sostituirsi ai termini mimus e histrio.
Secondo gli studi di Tito Saffioti la prima testimonianza del termine joculator nell’Occidente Cristiano risale al 436 d.C., da ricercarsi all’interno dei documenti del Concilio di Cartagine. A partire dal secolo XI il termine si estende a gran parte delle lingue volgari europee: jogleor e jougleur (divenuto poi jongleur) in antico francese, joglar in provenzale, juglar in spagnolo e jogral in portoghese. In area tedesca abbiamo gengler, in fiammingo gokelaaer, in inglese juglere o jogler, in seguito soppiantato da minstrel – la denominazione “menestrello”, dal latino ministerium in Italia è tarda, XIV secolo. Riguardo alle lingue celtiche invece le cose cambiano, troviamo infatti il bardo, termine gallico che diverrà: bard in irlandese e scozzese medievale, bardd in gallese antico, barz in bretone e barth in lingua cornica.
È paradossale, ma dilettevole, che la maggior parte delle testimonianze riguardo la continuità della professione degli istrioni ed il suo vigoreggiare nei primi secoli medievali ci giungano proprio dalle disposizioni canoniche e civili contro i loro trattenimenti, tratte principalmente dalle omelie e dagli scritti di Padri e Dottori della Chiesa. Un’altra prova tangibile del perpetuarsi dell’istrionismo in epoca altomedievale l’abbiamo nella conservazione di quello che è il più caratteristico simbolo teatrale: la maschera.
Nessun dubbio sulla continuità ininterrotta dell’uso della maschera anche nei secoli medievali, nei quali aveva dilagato al punto da invadere persino la cerchia de’ monasteri femminili durante le rappresentazioni dei Drammi liturgici. Nei Capitolari di Carlomagno, proprio come nelle leggi romane, oltre ad alcuni limiti nell’esercizio di certi diritti civili si fa divieto agli istrioni di contraffare « ex scenicis vestem sacerdotalem aut monasticam vel mulieris religiosae vel qualicumque ecclesiastico statu similem ». Una disposizione simile si ritrova nelle Assise Normanne di Sicilia del 1140 circa redatte del re Ruggero di Sicilia, che con l’Assise di Ariano gettò le basi di una prima costituzione nella quale vennero decretate leggi e punizioni, tra le quali figura già il delitto d’onore, assurda legge che in Italia verrà abolita solo nel 1981!
Tornando ai Capitolari Carolingi, il legislatore proibendo di utilizzare paramenti sacri a scopo teatrale mirava ad impedire lo scandalo e a salvaguardare la dignità sacerdotale, ma se fu necessario correre ai ripari ciò vuol dire che già nel IX secolo esisteva un teatro buffonesco che metteva a repentaglio la dignità di queste autorità agli occhi del popolo.
Lo spettacolo offerto al pubblico da questi giullari-attori era in parte improvvisato da un testo estemporaneo e se ci fu qualche persona che, per suo comodo, lo fissò sulla carta, raramente si ebbe poi la necessità di trascriverlo e di conservarlo. Il giullare-attore però, obbligato com’era a mandare a memoria de lunghi squarci, talvolta interi poemi, abbisognava di un repertorio scritto necessario alla sua preparazione. Al suo ritiro dal mondo dell’Arte, o alla sua morte, questo repertorio passava ad altre mani, ma in un’età in cui la proprietà letteraria non esisteva il nuovo possessore era libero di rimaneggiare a suo piacimento i testi ereditati.
Parecchi di tali repertorj sono giunti sino a noi e la varietà delle redazioni di tanti poemi volgari, o degli altrettanti cantari, non ha origine che da questo.
Quando finalmente si iniziarono a trascrivere e conservare le produzioni artistiche, di certo le più auliche ebbero la precedenza in quanto i nobili amatori aveano modo di pagare i copisti; mentre questa poesia popolare, senza altra pretesa che intrattenere per un istante, ebbe la stessa sorte che a distanza di secoli fu riservata ai primi canovacci della Commedia dell’Arte.
Nel tempo di Carlomagno la lingua del sapere era il Latino: che fossero dunque sovrani o villani, se non conoscevano il Latino si trovavano esclusi dalla conoscenza e dalla cultura.
Seppur agli antipodi, queste due classi sociali erano quindi spesso accomunate dall’ignoranza colmata solo grazie ai giullari che, attraverso le loro opere, offrivano svago e cultura in cambio di oboli, cibo, protezione. I giullari mandavano a memoria interi poemi riguardanti fatti storici ed epici: erano dei veri mezzi di informazione che, proprio come dei “mass media”, si servivano di linguaggi facilmente comprensibili ad ogni livello sociale per divulgare conoscenza attraverso l’Arte. Anche per questo loro utilizzo del volgare facevano incollerire i chierici secolari e gli uomini di chiesa che poetavano in Latino.
I cantori o histriones, divennero parte quasi obbligatoria della masnada di ogni signore e la dama, che la maggior parte delle volte amministrava “la casa” ed il personale, divenne una patronessa dei seguaci e servi del marito, per questi poeti poi massima ispirazione.
Quando in seguito la scienza della poesia cominciò ad ottenere fama e compensi tra la società feudale, molti giullari si volsero per quella via abbandonando sempre più le altre attività d’intrattenimento ed affaticandosi per sorpassare in eccellenza artistica i competitori, senza ritegno alcuno nell’ostentare all’interno dei loro versi la loro raffinatezza e bravura nel limare e “trobare” parole, rime care e melodie.
Per esempio citerò il primo verso di “Aujatz de chan, com enans’e meillura” del grande Marcabru (Ms. E, XII/XIII secolo – folio 152):
« Aujatz de chan, com enans’e meillura,
e Marcabrus, segon s’entensa pura,
sap la razo del vers lasar e faire
si que autre nolenpot un mot traire. »
(Prestate ascolto al canto, come progredisce e migliora, e come Marcabruno, secondo il suo schietto intendimento, sa il discorso e il verso allacciare e comporre, sì che altri non può toglierne una parola.)
Con tutta probabilità si può congetturare che il modo in cui nacque la poesia dei trovatori fu una trasformazione aristocratica della poesia del volgo, necessaria a tutte le classi sociali in quanto portatrice di conoscenza, informazioni, svago. Quando intorno all’anno 1000 i migliori tra questi giullari-attori-vagabondi iniziarono a raffinare la loro arte, smisero di frequentare luoghi più poveri preferendo le corti nelle quali trovavano maggior appagamento morale e pecuniario.
La poesia trovadorica, fin dal suo nascere, fu un prodotto della società feudale: grazie ad essa si ingentilì ricevendo festose accoglienze e generose rimunerazioni, sicchè la lirica provenzale e la società feudale di Provenza crebbero e vissero così indissolubilmente legate che i colpi della crociata albigese, colpendo l’una, ferirono mortalmente l’altra.
Non si creda però che questo rapido e fiorente crescere di una poesia artistica e aristocratica decretasse la morte della poesia popolare, anzi procedettero entrambe per la loro via con molteplici contatti ed a testimonianza della sua origine, la poesia aulica ha dei debiti verso la sua sorella popolana nella quale i trovatori vi trovarono parecchie tra le forme poetiche più utilizzate nella loro poesia: la ballata, la pastorella, l’alba, la ronda; veri fiori selvatici che l’arte dei trovatori e delle trobairitz seppe ornare e raffinare senza guastarne il profumo e la freschezza nativa.
Il termine “trovatore” e “trovatrice”, in provenzale trobador ed al femminile trobairitz, sono un derivato del verbo “trovare” (prov. trobar). Il termine si ricollega all’ambiente monastico poiché trobar deriverebbe dal latino tropare, tropum, cioè invenire o ricercare i tropi: versetti o sequenze che a partire dal sec. IX si componevano in aggiunta all’alleluia dei canti liturgici.
Per approfondire si veda questo articolo.
Il termine è già presente in alcuni componimenti dei primi trovatori documentati come in “Chanterai d’Aquest trobadors” di Peire d’Alvernha, nato nel 1130 circa, o in “Puois nostre temps comens’a brunezir” di Cercamon, nato nel 1135 circa.
Le vidas sono delle brevi biografie dei trovatori che precedono i loro componimenti poetici e musicali all’interno dei manoscritti. É sufficiente una semplice lettura per poter notare quanto i termini joglar e trobador coesistessero senza alcuna differenza fino al XIII secolo. Al di fuori dei fondamentali testi biografici di trovatori e trobairitz il termine ed il ruolo del joglar è spesso presente nei romanzi cortesi: Sir Dinadan, cavaliere della Tavola Rotonda, era un Jester le cui lodi sono costantemente cantate dal suo caro e fedele amico Tristano, maestro indiscusso dell’arpa e della musica; in Flamenca sono i juglars ad essere nominati ogni qual volta nel racconto si presentino arte, musica o feste, Renart la Volpe si finse joglar in una delle sue branches e potrei continuare ancora.
Ma tornando alle biografie dei trovatori, riporterò ora quattro esempi di alcune vidas contenute all’interno dei Ms. B del XIII/XIV secolo e K del XIII sedolo, da me tradotte:
• Giraut de Bornehll (folio 5r.):
«Girautz de Borneill fo de Lemozi, de l’encontrada d’Esiduoill, d’un ric castel del vescomte de Lemotgas. E fo hom de bas afar, mas savis hom fo de letras e de sen natural. E fo meiller trobaire que neguns d’aquels que eron estat denant lui ni que foron apres; per qu’el fo apellatz maestre dels trobadors, et es ancaras per totz aquels que ben entendion sotils ditz ni ben pausatz d’amor ni de sen. Fort fon honratz per los valens homes e per los entendens e per las bonas dompnas q’entendion los sieus amaestramens de las soas chanssons. E la soa maineira si era aitals que tot l’invern estava en escola et aprendia letras, e tot l’estiu anava per cortz e menava .ij. chantadors que chantavont las soas chansons. Non volc mais moiller, mas tot so que gazaignava donava a sos paubres parens et a la gleisa de la vila on el nasquet, la cals gleisa avia nom, et a ancaras, Saint Gervasi.»
(IT)
Giraut de Borneilh fu del Limosino, della contrada di Esiduoill, di un ricco castello del visconte di Limoges. Fu uomo di bassa estrazione, ma savio in lettere e senno. Fu il miglior trovatore di quelli che erano prima e di quelli che verranno dopo; per questo fu chiamato “maestro dei trovatori” e, inoltre, per tutti coloro che ben intendono il dir sottile era ben equilibrato in amore nel senno. Molto fu onorato dai valenti uomini, dagli intenditori e dalle nobildonne che audivano i suoi ammaestramenti nelle sue canzoni. E il sua maniera di vivere era tale che tutto l’inverno stava a scuola ad imparare lettere, e tutta l’estate andava in giro per le corti con due cantatori i quali cantavano le sue canzoni. Non volle mai sposarsi, e tutto quel che guadagnava lo dava ai suoi poveri genitori e alla chiesa della città in cui nacque, la quale aveva nome, e tuttora si chiama, Saint Gervasi.
(Come si può leggere, qui i due artisti che seguivano Girautz de Borneill vengono definiti “cantatori”)
• Raimbaut de Vacheiras (folio 99r):
«Raembaut de Vacheiras si fo fills dun o poubre cavaillier de Proensa. Del chastel de vaqueiras. que avia nom Peirolz. quera tengutz per mat.
Enrambautç si fetz joglar et estet longa saison cu lo prince daurenga. Guillin del Baus. ben sabia chantar efar coblaç esereventeç. el princes daurenga li fez gran ben e gran honor. Elé nanset el feç conoiser epresiar. ala bona gen. Euec se en monferat. amiser lo maques bonifaci. Er estet en sa cort lonc tempç. Estet si de sen ed armas. ede trobar. et enamoret se de la seroz del marques que aivia nom madonna biatriz qe fo moiller denric del caret. Etrobava dellei maintaç bonaç cansoç. Et apellava ensaç cansoç belç cavaillierç. Efon crezut quella li volgueç gran ben per amor. Eqat lo marques passer en romania.el lo mena abse efeç lo cavallier.Edet li gran terra egran renda.el regisme de salonic.elai el mori.»
(IT)
Raimbaut de Vacheiras fu figlio di un povero cavaliere di Provenza del castel di Vacheiras che aveva nome Peirolz ed era tenuto per matto.
Raimbaut si fece giullare e rimase molto tempo con il principe d’Aurenga Guillin del Baus. Ben sapeva cantare e far coblas e sirventesi ed il principe d’Aurenga gli fece grande bene ed onore e lo innalzò facendolo conoscere ed apprezzare dalla buona gente. Poi se ne andò in Monferrato dal marchese Bonifacio e rimase alla sua corte molto tempo, qui crebbe in forza ed in cultura. Si innamorò della sorella del marchese che aveva nome madonna Beatrice e che fu moglie di Enrico del Carretto. Per lei trovava molte buone canzoni nella quali l’appellava Bel Cavaliere e si convinse che anche lei ricambiasse il suo amore. Quando il marchese partì per la Romania (in crociata) lo portò con se e lo fece cavaliere donandogli molte terre e rendite. Poi nel reame di Salonicco, morì.
• Peirol (folio 91v):
« Peirols si fo uns paubres cavailliers dalverne dun castel qu anom Peirols. Ques enla contrada del dalfin al pe de roca fort. Efo cortes om et avvenenz de la persona. Eldalfinç dalverne fil tenia abse el vestia eill dava cavalls et armas. El dalfins si avia una seroz qua avia nom sail de claustra. Bella ebona e molt presada. Et era moiller den baraut de mercuoz. dungran baron dalverne. En peirols si lamava per amor, El dalfinç si la pregava per lui esa legrava molt de laç cansonç que peirolç fasia de la seroz. Emolt laç fazia plazer ala seroz. Etant que la domna li volia ben. Elamorç de la domna ede peirolç montan tan. quel dalfinç se gelosi della. Car crezet quella li fezet plus que avengues ad ella. Eparti peirol dasi el loniet enol vesti nil armet. Don peirolç no se poc ma tenez per cavallier. Euenc joglars. Et anet per cortz eretenep dels baronç edraç edenierç.ecavals »
(IT)
Peirol fu un povero cavaliere d’Alvernia di un castello che aveva nome Peirol. Questo era nella contrada del Delfino ai piedi di Rochefort. Fu molto cortese ed avvenente nella persona ed il Delfino d’Alverina lo manteneva dandogli cavalli ed armi. Il Delfino aveva una sorella che si chiamava Sail de Claustra: bella, buona e molto ben educata. Ella era moglie di Baraut de Mercuoz, barone alverniate. Peirol amava questa donna sinceramente ed il Delfino la pregava per lui e molto si rallegrava delle canzoni che Peirol componeva per la sorella che iniziò a voler bene a Peirol. E l’amore della donna e di Peirol aumentò a tal punto che il Delfino infine s’ingelosì perché era convinto che andassero oltre al consentito. Ed allontanò Peirol smettendo di mantenerlo. Quindi Peirol non si potè più mantenere come cavaliere e si fece giullare andando di corte in corte e ricevendo dai baroni vestiario, denaro e cavalli.
• Bertrans de Born (folio 113r):
« Bertrans de Born si fo uns castellans de l’evesqar de Peiregos, seigner d’un castel que avia nom Autafort. Totz tems ac gerra ab totz los sieus vesinç, ab lo comte de Peiregoç, et ab lo vescomte de Lemotgas, et ab son fraire Constantin, et ab En Richart, tant qant fo coms de Peiteus. Bons cavalliers fo e bons gerriers e bons dompneiaire, e bons trobaire e savis e ben parlans; e saup tractar mals e bens. Et era seigner totas vez qan se volia del rei Henric d’Englaterra e del fill de lui, mas totz temps volia qu’ill aguesson gerra ensems, lo paire e·l fills e·ill fraire l’uns ab l’autre. E totz temps volc qe·l reis de Franssa e·l reis d’Englaterra agessen gerra ensems. E s’il avian patz ni treva, ades se penava, e·is percassava ab sos sirventes de desfar la patz. E demostrava cum chascuns era desonratz en la patz. E si n’ac de grans bens e de grans mals d’aisso q’el mesclet entre lor; e si en fetz mains bons sirventes, dels cals en a aissi plusors escritz. »
(IT)
Bertrando da Bornio si fu un castellano del Vescovado di Perigos, signore di un castello che aveva nome Autafort. Tutto il tempo fece guerra a tutti i suoi vicini, il Conte di Peiregoç, il visconte di Lemotgas, con suo fratello Costantin e con Messer Richart, quando fu Conte di Peiteus. Buon cavalliere fu e buon guerriero e buon donneatore e buon trovatore e savio e bene parlante, e seppe ben trattare cattivi e buoni. Signore era tutte le fiate in cui aveva a che fare con il re Enrico d’Inghilterra o con il figlio di lui, ma tutto tempo volea ch’elli avessono guerra insieme, lo padre e li figliuoli, e li fratelli l’uno con l’altro. E tanto tempo cercò di far si che il re di Francia e d’Inghilterra facessero guerra. E se regnava la pace, allora stava in pena e cercava con i suoi sirventesi di disfare la pace e di mostrare come ciascuno era in quella disonorato. E sì n’ ebbe di grandi beni e di grandi mali di ciò che li mescolò tra loro. Fece sirventesi molto buoni molti dei quali furono scritti.
Dal manoscritto E (210v; R2v) estraggo solo questa parte di vida mancante in quella del ms. K:
« Molt fo bons trobaire de sirventes, […] et anc no fes chansos fors doas. E·l reis d’Arago donet per moiller las chansos d’En Guiraut de Borneill a sos sirventes. Et aquel que cantava per el avia nom Papiol. Et era azautz hom e cortes. »
Fu un buon trovatore di sirventesi […] e quello che li cantava per lui aveva nome Papiol ed era un uomo abile e cortese.
Il trovatore Uc de Saint Circ visse nelle prima metà del XIII secolo e durante il suo soggiorno in Italia, dovuto come per molti suoi compaesani trovatori alla crociata albigese, raccolse e scrisse molte delle vidas fortunatamente giunte fino a noi. Quelle da me riportate sono solo quattro, ma sono emblematiche per ciò che riguarda la nostra ricerca.
Ciò che si può notare è che né in queste né nelle altre vidas il termine joglar ha accezione negativa. Inoltre è utilizzato per persone provenienti da ogni ceto sociale che decidono di intraprendere la carriera artistica di poeti e musicisti.
Notiamo anche che i joglar erano spesso compositori del moz el so, cioè di parole e musica, quindi non meri esecutori del repertorio altrui.
Eppure i trovatori si avvalevano sovente di persone che cantavano le loro composizioni al posto loro, spesso appellati cantatori o messaggeri in quanto incaricati di consegnare – e quindi eseguire – la loro ultima composizione alla persona interessata.
Un’altra fonte fondamentale è il già citato Flamenca, romanzo provenzale del XIII secolo, nel quale i joglar sono presenti in più passaggi. Ne voglio riportare uno dove vengono elencate le varie attività che questi artisti svolgevano nelle corti durante i fastosi banchetti. Il testo è particolarmente lungo, ma lo voglio comunque riportare tutto. Per chi volesse consultare anche l’originale, mi scriva per email e sarò lieto di farglelo avere. Ecco l’estratto:
« Poi si alzarono i giullari; tutti volevano farsi ascoltare. Allora si sarebbero potute sentir risuonare corde dalle tempre più disparate. Chi sapeva una nuova aria per viella o una canzone o un descort o un lai si mise più in mostra che poté.
Uno esegue con la viella il “Lai del caprifoglio”, un altro quello di Tintagel, uno canta quello dei Perfetti amanti, un altro quello che compose Ivain. Uno suona l’arpa, un altro suona la viella, uno suona il flauto, un altro ancora zufola; uno suona la giga, un altro la rotta; uno canta il testo e un altro lo accompagna con la musica; uno suona la cornamusa, un altro il piffero, uno suona la musa, un altro la ciaramella; uno suona la mandura, un altro accorda il salterio con il monocordo; uno dà spettacolo con le marionette, un altro si esibisce con i coltelli; uno fa esercizi a terra, un altro fa i salti mortali, un altro ancora fa un numero di danza con una coppa; uno passa attraverso un cerchio, un altro salta: a nessuno fa difetto la destrezza nella propria specialità. Chi aveva voglia di ascoltare i più svariati racconti di re, di marchesi e di conti, ne poté ascoltare quanti ne volle; non c’era un solo orecchio che restasse in ozio, perché uno raccontava di Priamo e un altro narrava di Piramo; uno raccontava della bella Elena, di come Paride le richiese il suo amore e poi la rapi, un altro raccontava di Ulisse, un altro di Ettore e Achille; un altro raccontava di Enea e di come Didone si ritrovò ad essere, per causa sua, infelice e sventurata; un altro raccontava di come Lavinia ordinò alla sentinella della torre più alta di lanciare un messaggio attaccato a una freccia; uno raccontava di Polinice, di Tideo e di Eteocle, un altro raccontava di come Apollonio resse Tiro e Sidone; uno raccontava del re Alessandro, un altro di Ero e di Leandro; uno narrava della fuga di Cadmo e di come fondò Tebe, un altro raccontava di Giasone e del dragone che non dormiva mai; uno raccontava della forza di Alcide, un altro di come [✝] Fillide per amore di Demofonte; uno narrava di come annegò nella fonte il bel Narciso, mentre vi si specchiava; uno diceva di come Plutone rapi ad Orfeo la sua bella moglie, un altro raccontava di come il filisteo Golia fu ucciso da tre pietre che gli scagliò David; uno narrava di come dormisse Sansone quando Dalila gli legò le chiome, un altro di come Maccabeo combatté dalla parte di Dio; uno raccontava di come Giulio Cesare attraversò il mare tutto solo, senza neanche pregare Dio, e non pensiate che avesse paura! Uno narrava della Tavola Rotonda, alla quale nessuno si presentò senza che il re gli rispondesse in modo conforme alla sua saggezza e dove mai venne meno il valore; un altro raccontava di Galvano e del leone che fu compagno del cavaliere che salvò Lunetta; uno narrava di come la fanciulla bretone tenne Lancillotto in prigione quando le negò il suo amore; un altro raccontava di come Perceval entrò a corte senza scendere da cavallo; uno raccontava di Erec e di Enide, un altro di Ugonet di Perida; uno raccontava di come Governal si travagliò per Tristano; un altro raccontava di Fenice, di come la sua nutrice la fece passare per morta; uno narrava del Bel cavaliere sconosciuto e un altro dello scudo vermiglio che l’araldo trovò vicino alla porta; un altro raccontava di Guiflet; uno raccontava di Calobrenan, un altro narrava di come il siniscalco Keu fu tenuto un anno in prigione dal Deliez, perché aveva sparlato di lui; un altro raccontava di Mordret; uno raccontava la storia di Ivet, di come fu cacciato per figlio adulterino (?) e ben accolto dal Re Pescatore; uno raccontava le profezie di Merlino, un altro diceva di come agiscono gli Assassini succubi dell’astuta arte del Veglio della montagna; uno descriveva come Carlomagno dominò l’Alemagna, finché non la suddivise; uno raccontava tutta la storia di Clodoveo e di Pipino, un altro diceva di come precipitò dal paradiso il nobile Lucifero a causa del suo orgoglio; uno diceva del valletto di Nanteuil, un altro di Olivieri di Verdun; uno recitava il vers di Marcabruno; un altro raccontava di come Dedalo riuscì a volare e di come invece Icaro annegò per la sua sventatezza. Ognuno narrava come meglio sapeva. Per il frastuono dei suonatori di viellla e per lo strepito di tanti narratori era forte il brusio nella sala. »
Ecco i joglar impegnati nei ruoli più disparati: da musicisti a cantori, poeti ed attori e poi acrobati, ma soprattutto detentori di cultura antica ed attuale; viene citato persino Marcabru, evidentemente già molto famoso.
Ma quale potrebbe essere dunque la differenza tra il trovatore ed il giullare?
Potremmo congetturare che prima del XIII secolo non ci fosse molto interesse nel creare un distinguo tra i due termini e che non esistesse formalmente un’incoronazione poetica. Il termine joglar ormai rappresentava chiunque fosse una sorta di artista, una persona dedita all’intrattenimento ed alla cultura, spesso fondamentale veicolo di informazione e detentore della memoria collettiva del tempo. A volte però capitava che i migliori tra questi artisti venissero trattenuti presso una corte divenendo, appunto, cortigiani o uomini di corte, a volte persino innalzati al grado di cavalieri! Questo status permetteva loro di cessare il continuo peregrinare alla ricerca di un nuovo mecenate. La carica di cavaliere era costosissima da mantenere e richiedeva enormi spese per chi di questi cavalieri si avvaleva. Il cavaliere poteva inoltre contare su una rendita eccellente tra terre e feudi, ed avere anch’esso un proprio seguito.
Nelle vidas troviamo spesso frasi come: “non potendo più mantenere cavalleria, si fece giullare” oppure “fu giullare, ma poi [il tal signore] lo innalzò tra la gente da bene e fecelo cavaliere”. Questa, seppur intrigante, rimane comunque un’ipotesi.
Riguardo al ruolo di meri esecutori spesso attribuito alla categoria dei joglar, vorrei riportare una divertente ed interessante razo a noi pervenuta nel manoscritto R del XIV secolo. Le razos sono le ragioni che hanno spinto il poeta o la poetessa a scrivere un determinato componimento. Come le vidas, anche le razos sono in prosa e nei manoscritti precedono i componimenti poetici.
Questa razo riguarda il celebre trovatore Arnaut Daniel del quale scopriamo un divertente retroscena che ha per protagonista proprio il trovatore la cui poesia fu celebrata da Dante che nella sua Commedia lo definì il “miglior fabbro del parlar materno”.
La vicenda si svolge alla corte di Riccardo Cuor di Leone: un giullare sfida Arnaut Daniel affermando che saprà comporre rime migliori delle sue, il trovatore non lo prende nemmeno sul serio, però accetta la sfida ed entrambi scommettono il proprio cavallo… ed Arnaut Daniel, alla fine della storia, ne esce proprio con una “giullarata”!
« E fon aventura qu’el fon en la cort del rey Richart d’Englaterra, et estant en la cort, us autres joglars escomes lo com el trobava en pus caras rimas quel el. Arnaut tenc so ad esquern e feron messios, cascu de son palafre, que no fera, en poder del rey. E•l rey enclaus cascu en una cambra. E•N Arnaut, de fasti que n’ac, non ac poder que lasses un mot ab autre. Lo joglar fes son cantar leu e tost; e[t] els non avian mas detz jorns d’espazi, e devias jutgar per lo rey a cap de cinc jorns. Lo joglar demandet a•N Arnaut si avia fag, e•N Arnaut respos que oc, passat a tre jorns; e non avia pessat. E•l joglar cantava tota neug sa canso, per so que be la saubes. E•n Arnaut pesset col traysses isquern; tan que venc una neug, e•l joglar la cantava, e•N Arnaut la va tota arretener, e•l so. E can foro denan lo rey, N’Arnaut dis che volia retraire sa chanso, e comenset mot be la chanso quel joglar avia facha. E•l joglar, can l’auzic, gardet lo en la cara, e dis qu’el l’avia facha. E•l reys dis cos posia far; e•l joglar preguet al rey qu’el ne saubes lo ver; e•l rey demandec a•N Arnaut com era estat. E•N Arnaut comtet li tot
come era estat, el rey ac ne gran gaug e tenc so tot a gran esquern; e foro aquitiat li gatge, et a cascu fes donar bel dos. E fo donatz lo cantar a•N Arnaut Daniel, que di:
“Anc yeu non l’ac, mas ela m’a”
Et aysi trobaretz de sa obra. »
E fu un caso ch’egli fu alla corte del re Riccardo d’Inghilterra, e stando a corte, un altro giullare scommise di comporre in più preziose rime di lui. Arnaldo prese ciò per scherzo e ciascuno fece scommessa del proprio cavallo, a disposizione del re, che l’altro non avrebbe fatto. E il re fece rinchiudere ciascuno in una camera. E Arnaldo, per la noia che ne provò, non poté legare una parola all’altra. Il giullare compose la sua canzone facilmente e subito; essi non avevano più di dieci giorni di tempo, e il re doveva giudicare di lì a cinque giorni. Il giullare domandò ad Arnaldo se avesse fatto, e Arnaldo rispose di sì; erano passato tre giorni e ancora non ci aveva pensato. E il giullare cantava tutta la notte la sua canzone, per ben saperla. E Arnaldo pensò come potersi gabbarsi di lui, finché venne una notte, e il giullare la cantava e Arnaldo la impara tutta, insieme con l’aria. E quando furono dinanzi al re, Arnaldo disse di voler recitare la sua canzone e cominciò assai bene la canzone che il giullare aveva composto. Come l’udì il giullare, lo fissò in volto e disse che lui l’aveva composta. 11. E il re chiese come si poteva fare; e il giullare pregò il re ch’egli sapesse il vero e il re chiese ad Arnaldo come fosse andata. E Arnaldo gli raccontò tutto come era andata; il re ebbe grande gioia e ritenne tutto una gran burla e furono liberati i pegni e a ciascuno fece dare bei doni.
Ad Arnaldo fu dato il canto che dice: “Mai io l’ebbi, ma esso m’ha”.
A differenza della vidas e delle razos, nelle liriche trobadoriche capita a volte che joglar assuma un senso degradante, come nelle tenso di Raimbaut de Vacheiras con Alberto Marchese Malaspina o con la domna genovese.
Che forse in questi nuovi poeti vivesse ancora un poco l’antico dispregio sociale per i randagi histriones, al di fuori della secietà oltre che senza stabile dimora e protezione? O che volessero differenziarsi dai tanti artisti dilettanti che intasavano le corti e le strade in quei secoli?
Così parrebbe leggendo i versi di Peire de la Mula contenuti nel Ms. R del XIII/XIV secolo (folio 22r). Peire de la Mula fu un joglar italiano del XII secolo, uno tra i più antichi del nostro territorio:
«Dels joglars servir mi laisse,
senhor, auiatz per que ni cum:
quar lur enueitz creis e poia,
qui mais lor sier meins acaba,
quar selh que meins valdra que tug
Vol qu’hom per melhor lo tenha,
e son ja tant pel mon cregut
que mais son que lo Bret menut.»
Il mestier dei joglars io lascio, signor, udite perché e come: ché la lor noia cresce e sale; chi meglio serve meno ottiene e colui che val meno o niente vuolsi che per miglior si tenga, e son già nel mondo tanti più dei bretoni affollati.
E poi continua:
«Una leig vei dìescuoill
avol e malestan,
c’aquil arlot truan
vant cridan dui e dui:
“Datz me, que joglars su!”
Car es Bretz o Normans,
E vei en oi mais tans
per qu’es als pros dampnatges.
E mi par nesciatges
c’om lor mesca ni taill
en cort de pro vassall.
E s’en sui encolpatz,
car los ai acusatz,
vos, cortes, que anatz
per cortz, m’en razonatz,
q’ieu non vuoill ia lor patz.»
Vedo che v’è un’usanza insana e disonesta, da che questi vil ribaldi urlando vanno a due a due: “date a me: che son giullare”. E son bretoni e normanni, e ne vedo ormai sì tanti da far ai valenti danno. E mi par vera idiozia che a lor si mesca e tagli a la corte del prode duce. E se io sono incolpato per aver loro accusati, voi che andate, o cortesi, per le corti, difendetemi che non voglio la lor pace.
Peire de la Mula già denunciava questa corruzione della classe giullaresca prima del 1200, con il passare degli anni ed avviandoci verso il crepuscolo del periodo d’oro della poesia trobadorica le cose non poterono che peggiorare. Dal XIII secolo iniziarono a comparire manoscritti meravigliosamente confezionati nei quali venivano coscientemente riportate vidas, razos e versi poetici di trobairitz, trobador o joglar degni di essere conservati. Che i propri componimenti venissero trascritti nei meravigliosi ed illustri libri era già di per sè un vero riconoscimento: tra quelle pagine per certo non vi si trovavano testimonianze di saltinbanchi, addestratori di animali o giocolieri, tutte figure legate al mondo dell’intrattenimento; eppure al trovatore Guiraut Riquer questo non bastava ed anche lui, come Peire de la Mula un centinaio di anni prima, era infastidito nel vedere tanti impostori e cialtroni riversarsi dalle bettole nelle corti.
A differenza di Peire de la Mula però Guiraut Riquer volle chiarire una volta per tutte la differenza tra le varie tipologie di artisti.
Il risoluto Riquier, considerato da molti l’ultimo dei trovatori la cui poesia, seppur ben confezionata, non brilla più della freschezza dei suoi predecessori, nel 1275 decide di provare a far ordine una volta per tutte tra le varie tipologie di artisti intruppati nella giulleria. Scrive dunque una supplica al sovrano e trovatore Alfonso X El Sabio nella quale richiede il suo intervento.
Ecco un’estratto della sua Supplica, seguita dalla Declaratio di Alfonso X, redatta dallo stesso Riquier e tradotta da Tito Saffioti:
Supplica
E poiché odo chiamare in modi diversi i contadini, a seconda dei loro lavori abituali, ed altrettanto accade per gli artigiani, e così per i mercanti, sia che viaggino o che stiano fissi, poiché dei borghesi non m’interessa ora parlare oltre, e odo designare in modi diversi i cavalieri e rivolgersi ai chierici con varie denominazioni nel modo per loro più onorevole, dico che la logica e la consuetudine giustamente concorrono sì che nel genere si hanno molte specie, cosicché ciascun genere, sulla base di qualche motivo – così come di una regione le città, i paesi, i popoli – e tutto quanto è nominato con proprietà, così come deve esserlo. Perciò ho stimato che sarebbe conveniente [stabilire una distinzione] di nomi fra i giullari, ché non sta bene che i migliori fra loro non abbiano di nome l’onore che hanno di fatto; ché mal sopporto che un uomo senza cultura, di meschina condotta, purché conosca un poco uno strumento qualsiasi, se ne vada a suonarlo in pubblico, per le strade, chiedendo e mendicando doni; o che un altro canti senza discernimento per le piazze in maniera sconveniente, e spenda la sua fatica elemosinando fra gente bassa di ogni specie, indigena e straniera, per andarsene poi nelle bettole, purché possa averne a disposizione; e non osano farsi vedere in alcuna corte di pregio. Il fatto è che si sogliono chiamare giullari, senz’altro nome, sia quelli di cui si è detto, sia quelli che usano soltanto giochi di prestigio, sia quelli che esibiscono scimmie e marionette, sia altri ai quali non è dato comportarsi in modo esemplare. […] Ma al giorno d’oggi, anzi, da tempo, si è fatta avanti una sorta di persone senza alcuna capacità di fare o di dire cose piacevoli e senza discernimento, che s’impacciano di cantare, di far versi o di suonare strumenti o d’altro, senza alcuna creanza, purché possano chiedere, ad emulazione dei valenti. E sono subito gelosi quando vedono questi ultimi onorati dai potenti, e vanno coltivando la maldicenza. E non si dovrebbe sopportare ciò per niente, a mio parere, mentre vedo invece che li si tiene in considerazione e li si teme più degli assennati. E inoltre, poiché nella stima comune è decaduto il nome di giulleria, ché tal genere prima non ne faceva parte, mi duole dei trovatori sapienti, che non abbiano reclamato nel tempo passato quello che ora io espongo, così da far disporre, da colui cui di diritto ciò spettasse, che ciascuno avesse nome in corrispondenza di ciò che sapesse fare, e che tutti fossero giullari quanto alla condizione generale nel caso che praticassero una sola attività e non altro, come accade per i borghesi. Ma non si deve fare il confronto perché i borghesi sono ritenuti senza fallo avere una sola attività ed un unico comportamento, purché ne abbiano la possibilità; mentre fra i giullari troverete altri tipi diversi, quelli buoni, quelli mediocri, quelli vili e disdicevoli, sicché ne deriva ai migliori un danno ed una vergogna tali che ognuno si allontana, quando può, dalla loro compagnia, perché odo designare con il medesimo nome giullare vile e giullare valente, e ciò non è giusto, in quanto in tal modo ogni persona che deve vivere nell’umana società non ha un nome per ciò che fa.
Declaratio
Decidiamo quindi e fondatamente affermiamo che ogni indegno, che vive bassamente, sia o no sapiente, non debba presentarsi in alcuna corte di pregio; così quelli che fanno saltare scimmie o caproni o cani, o che fanno i loro giochetti sciocchi, come quello dei burattini, oppure imitano il canto degli uccelli o suonano strumenti e cantano per pochi soldi in bassi ambienti, non devono esser compresi nell’ambito della giulleria; e, come in Italia, si chiamino “buffoni” quelli che, pur frequentando le corti, si fingono pazzi, e non si vergognano di alcuna abiezione, mentre, al contrario, non apprezzano ciò che è piacevole e ha valore.
E quelli che sanno vivere tra i potenti con cortesia e con decorose capacità, suonando strumenti o raccontando novas di altri autori, o cantando vers e canzoni altrui ben fatte e piacevoli ad ascoltarsi, possono a buon diritto portare quel titolo di “giullari”. Egualmente, chi lo preferisca, può designare ognuno di questi per sé; ma poiché tale è ormai l’uso corrente, siano chiamati pure giullari, in quanto a ragione devono stare in corte e non avere preoccupazioni economiche, perché di tali persone c’è gran bisogno nelle corti, in quanto vi portano molti generi di intrattenimento che ricreano piacevolmente lo spirito. E quelli che sanno comporre ad arte versi e melodie, è la ragione stessa che mostra come li si deve chiamare; ché chi sa fare danze e cobbole e ballate acconciamente composte, albe e sirventesi, è cosa adeguata e ragionevole che si chiami “trovatore”; e questi giustamente deve essere onorato più del giullare, in quanto un altro può farsi giullare utilizzando l’arte di lui. Altrettanto giustamente devono essere onorati i migliori nell’arte del verso, se si vuol rispettare giustizia, perché chi sa fare canzoni e vers esemplari, e novas gradevoli e begli ensenhamens ammaestrando in cose temporali e spirituali di guisa che, sol che si voglia, si possa distinguere il bene dal male, deve ricevere onore nel mondo, in quanto Dio glielo fa, se, più d’altro trovatore, tiene un comportamento conforme al suo sapere, secondo le sue possibilità. Egli [infatti] per.suo piacere e dovere indica con bell’arte la via dell’onore, garbatamente chiarendo ciò che è oscuro; e difficilmente farebbe il proprio danno chi a lui si affidasse del tutto. Dunque coloro che possiedono maestria nella suprema arte di far versi, che appaiono periti in ciò che tutti i trovatori fanno, quando hanno un buon contegno, è chiaro che hanno realizzato ciò a cui si sono dedicati frequentando la corte. Quindi, secondo il nostro giudizio, non vediamo impedimento alcuno a che spetti loro onore di nome e di fatto. E dichiariamo che i migliori, i quali, in vers e in canzoni e in altri componimenti che sopra abbiamo ricordato, sanno indicare azioni insigni e come si debba guidare una corte, li si deve chiamare a buon diritto e per la loro capacità col titolo di signori “dottori in poesia”.
Con la sua Declaratio Guiraut Riquer, come un giardiniere esasperato, ha voluto strappare tutte le erbe spontanee che creavano caos nell’aiola fiorita della poesia, classificando e dando un nome ad ogni specie da lui risparmiata.
Epperò per gli artisti venuti prima di lui questa regola non era così importante, altrimenti come potremmo giustificare alcune personalità brillanti definite dalle fonti del tempo joglar come, per citarne uno, Raimbaut de Vaqueiras, perfettamente in grado di comporre nuove musiche e parole senza limitarsi ad eseguire il repertorio altrui?
Nel nuovo ordine di Guiraut Riquier il “dottore in poesia” era l’artista puro sotto ogni punto di vista, il trovatore invece doveva rappresentare il poeta autentico, creatore di versi e di armonie con il dono di tradurre in versi l’ispirazione divina ed amorosa; l’antico termine giullare infine era ora destinato a chi non era in grado di comporre opere proprie, ma comunque ruolo da considerare meritevole di rispetto nelle corti, nelle quali doveva poter vivere serenamente dato che necessario; inoltre doveva evitare i luoghi corrotti, territorio di tutti gli altri artisti, per lui: “buffoni”.
Il secoli aurei della poesia provenzale furono l’undicesimo, il dodicesimo e l’inizio del tredicesimo, le vidas raccolte da Uc de Saint Circ ed i manoscritti riguardanti le composizione trobadoriche iniziarono infatti ad essere realizzati dalla metà del XIII secolo, nello stesso tempo in cui Guiraut Riquer tentava la sua classificazione, forse necessaria considerando, secondo le testimonianze, l’aumento esorbitante di concorrenza dilettante. Oltre a questo, mi vien da pensare che essendo ormai giunto il crepuscolo per la poesia trobadorica, iniziasse a nascere l’esigenza di un ordinamento delle opere e dei personaggi volto allo studio ed alla conservazione di quest’arte che nei secoli successivi venne sempre più indagata e studiata dando vita ad opere come “Le Leys d’amors” o “Flors del Gay Saber”, trattato provenzale del XIV secolo in cui vengono codificate forme e stilemi usati dai trovatori; o “L’Act de dictier” di Eustache Dechamps, sostanzialmente la stessa cosa ma in lingua d’oïl, cioè l’antico francese.
A noi non rimane che continuare ad accettare la ormai comoda e consolidata proposta di Guiraut Riquier consapevoli però che, come spesso accade, in origine le cose fossero più genuine e meno intricate.
Almeno però dopo questa piccola ricerca sapremo che la prossima volta che udiremo ad una festa folcloristica qualcuno definirsi “giullare” perché dice sciocchezze camminando sui trampoli, truccato e magari sputando del fuoco, altro non sarà che un disinformato saltimbanco che non sarebbe per nulla piaciuto a Guiraut Riquier.
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