Ballata: la canzone ballabile

La Ballata nel “Medioevo”

Mirko Virginio Volpe
Aprile 2023

Del modo come si svolgessero le danze nell’Alto Medioevo, nella fattispecie la “rota”, possiamo farcene un’idea adeguata grazie ai documenti a noi pervenuti, sia dall’antichità che dal Basso Medioevo.
Partendo dalle descrizioni di antichi scrittori, Omero ad esempio, e da raffigurazioni come l’incredibile affresco del V secolo a.C. nella cosiddetta “Tomba delle danzatrici” in Puglia, noteremo che poco è cambiato rispetto alle celebri scene di ballo raffigurate da artisti quali Ambrogio Lorenzetti, Andrea da Firenze, Beato Angelico.
Questa continuità può formarci un’idea adeguata di come si danzasse la “rota” anche nel XI e XII secolo.
Il più delle volte il cerchio era composto da sole donne, gli uomini preferivano forse lo stare a guardare; altre volte la danza collettiva era formata da una catena mista di donne e uomini che si apriva e si chiudeva muovendosi al suono della voce e di strumenti musicali.
Il conduttore o la conduttrice menava la ridda intonando il canto e guidando i movimenti sempre da destra verso sinistra. Ironico che tra le testimonianze più dettagliate di questi balli ci siano proprio i furiosi sermoni dei predicatori cristiani che, pieni di rabbia, lanciavano invettive contro tali antiche usanze popolari descrivendone minuziosamente i particolari.
« La carola è un cerchio il centro del quale è il demonio, et omnes vergunt in sinistrum »: verso sinistra, cioè verso la perdizione. Eppoi ecco Frà Domenico Cavalca: « Le vanità e le pompe vane sono ne’ balli sempre opera del diavolo; e questo si mostra in ciò che sempre ne’ balli si procede da mano manca, dalla quale, come dice il Vangelio, stanno i dannati ».
L’andamento della danza consisteva in una alternanza di tre o di più passi fatti in misura e di un movimento dondolante sul posto. I versi cantati dal conduttore riempivano il tempo durante il quale si facevano i passi, nel tempo destinato al movimento dondolante venivano invece cantati i versi dal coro.
La ruota medievale aveva per l’appunto un siffatto carattere: essa simboleggiava, in sostanza, una comunità di persone dedite alla gioia e all’amore; dalla quale pertanto vanno esclusi gl’indegni, ossia i gelosi, i vecchi e i frigidi. Per questo il ballo si apre, d’ordinario, con un invito a intervenirvi rivolto ai giovani e alle belle donne. La famosa poesia provenzale “A lentrade del tens clar” è per l’appunto uno di questi inviti.
Il musicista o cantante annuncia l’arrivo prossimo della Regina della Primavera che ha convocato alla danza le coppie giovanili, tutte quelle che vi si trovano da lì sino al mare.
Ma il marito, geloso e vecchio, s’è proposto di disturbare la gioia della festa ed ella, che non se ne cura, preferisce di sollazzarsi con un “leugier bachalar”, ossia un grazioso giovane. Ecco dunque che la Regina di Maggio scaccia via dal cerchio l’incollerito ed importuno re guastafeste.
Quali meravigliose reminiscenze pagane in queste pratiche! Che incredibile e fortuito destino hanno avuto per poter sopravvivere al tempo seppur come echi lontani tramite questi versi!
Eccone una nostra interpretazione di “A lentrade del tens clar” contenuta all’interno del disco “Dançando la fressca Rosa”

A lentrade del tens clar (A l’entrada del temps clar)

 

Benché il modo di ballare la rota sia stato identico in Francia e in Italia, l’evoluzione musicale si svolse in maniera diversa in ciascuno de’ due paesi. Ecco al di là delle Alpi arrivare la “Pastorella” e la “Reverdie”, nate dalla creatività di trovatori e trovieri; in Italia invece nacque una una forma lirica chiamata “Ballata” la quale, secondo De Bartholomaeis, potrebbe dirsi la vera forma lirica nazionale in contrapposto alla Canzone, giunta in Italia dalla Provenza.
Molti sono i temi comuni tra la celebre danza di maggio “A lendrade del tens clar”, della quale abbiamo parlato nel precedente post, e le ballate popolari italiane che celebrano la Primavera e la danza.
Un esempio è da ricercarsi tra le Rime della Danza Mantovana, da noi chiamata “Dança de Mai”.
In principio vi si legge: “Venite, polcel’ amorosa, madona, vinit a la dansa, mostrati la vostr’alegrança, si como vu siti çoyosa”. Ecco come di consueto l’invito rivolto alle belle da parte del nostro musicista che più in là prosegue: “Li doni che so’ inamorati non deça guardar cason; poy che lo tempo se pon de darve solaç e deport, bene serïa grant tort se stesev in casa reclosa”, grande sarà il torto se starete in casa reclusa! Questo è un appello rivolto alle belle perché non tengano la loro beltà in celato, ma vengano a farne pubblica mostra nel ballo della ruota: “…per De’, no se’n faça prigari: vegn’ a la rot’ a balari.”
Non deve più stupire ormai quanto i cosiddetti secoli medievali potessero essere pieni di sincera gioia e condivisione tra le persone che, con la semplicità di chi conserva una mente giovane, sapevano cogliere il meglio della vita celebrando con la musica la Natura che rinverdisce, gli usignoli che tornano a cantare nei boschetti di nocciolo, l’Amore…
Dal nostro disco “Concerto a Montorfano” ecco “Dança de Mai”, una nostra interpretazione dalle Rime della Danza Mantovana.

Dança de Mai

 

 

Nel Medioevo la musica e la danza sono strettamente legate, entrambe
affondano le loro antiche e profonde radici nella notte dei tempi
dell’umanità fondendo simbolismo, ritualità, divertimento, spiritualità.
Nei secoli medievali le celebrazioni della primavera erano ancora estremamente vive nonostante il clero, laddove non riuscì a sostituirle feste cristiane, attraverso feroci sermoni chiedeva di evitare, pena la dannazione, di partecipare a queste pratiche obsolete, diaboliche, pagane.
Le carole, la rota e le altre danze erano un irresistibile divertimento, occasione di unione e condivisione dopo il freddo Inverno passato davanti al focolare, facendo economia e avendo quasi dimenticato il gusto di un frutto, il canto degli uccelli, il verde dei boschi. Poi ecco che il cuculo tornava a cantare e con il suo canto la Primavera colorava di nuovo un mondo che per noi è fantasia. Alle feste di maggio si cantava, si suonava, mangiava e beveva. Era la Natura che “rinverdiva” e faceva venire voglia amare.
I notai di Bologna all’interno dei loro libri notarili riportarono con cura molte ballate e poesie preservandole dall’oblio, e dai loro documenti, i Memoriali Bolognesi, in due trascrizioni del 1287 e del 1290 ci giunge un componimento che ha tutte le caratteristiche delle danze di maggio: “Seguramente vegn’a la nostra danza chi è fedel d’amore et agli cor è speranca! Vegn’a la nostra danza seguramente, et a don’e doncelle ponete mente; qual più ve place prenda per soa intendanca!”
Ecco il classico invito all’amore di cui la rota rappresenta quasi il tempio, inviolabile da parte degli estranei, e dove a ciascuno è lecito di trovare la sua “intendança”, al sicuro da ogni impedimento. Legato a questo componimento ne troviamo subito un’altro che sembra proprio essere cantato da uno degli uomini che presenziano alla rota, che dice: “Ella mia dona çoglosa vidi cun lealtre dançare, vidila cum a legança lasovrana de lebelle, chedeço menava dança de maritate e polcelle…” che scena meravigliosa viene descritta in così pochi versi! Una donna gioiosa mena la ridda, proprio lei che è la regina delle belle faceva danzare donne tutte le donne che fossero o no maritate, poi continua: “…lande presi grande baldança tutor dançando chonelle”, il nostro cantante baldanzoso si è fatto coraggio e si è buttato nella rota perché mentre danza la sua “Fresca Rosa” è così bella da far risplendere anche le altre “Dançando la fressca rosa preso fui de so bellore tante fressca et amorosa chalealtre da splendore”; ed infine finalmente si dichiara: “…dissile cortese mete: dona vostre locor meo”! E la regina del ballo immantinente risponde: “tal servente benvogleo, in ço vivral cor meo!”
Ecco la nostra versione in musica contenuta nel nostro disco “Dançando la fressca Rosa”.

Seguramente vegna ala nostra dança / Ella mia dona çoglosa

Nelle parti precedenti abbiamo visto quanto la “rota” e le danze di
maggio fossero importanti a livello sociale e celebrate nonostante
impedimenti e proibizioni da parte del clero che in queste pratiche non
riusciva a cogliere alcun aspetto gioioso.
“Pur bii del vin, comare” è una divertentissima ballata contenuta nei celebri Memoriali Bolognesi, documenti notarili di cui spesso abbiamo scritto e parlato in varie sedi. La ballata racconta le avventure di due donne estremamente dedite alla bella vita che cercano di fuggire la monotonia della quotidianità, lavoro, famiglia ecc… per divertirsi insieme e combinarne di ogni sorta.
La canzone « ballabile » consisteva in un’alternanza di canto tra solista e coro: al solista era riservata la « stanza », al coro la « ripresa ». Non potendosi esigere che ogni partecipante alla danza ed al canto conoscesse tutte le parole, gli era sufficiente ricordare i pochi versi della « ripresa », affidando tutto il resto alla voce solista.
Il Coro veniva avvertito al momento di attaccare dal ricorrere della rima dell’ultimo verso cantato dal conduttore.
“Pur bii del vin, comadre” inizia con il coro che intona: “Pur bii del vin, comadre, e no lo temperare, ché, (se) lo vin è forte, la testa fa schaldare!”  A questo punto ecco la voce solista che canta la prima stanza ed inizia la storia raccontando della ricerca di vino da parte delle due donne che riescono a trovarne ben cinque barili, subito scolati a stomaco vuoto: “Giernosen le comadri tramb ad una maxone, çercòn del vin setile sel era de saxone, bevenon cinque barii, et eranon deçune, et un quartier de retro per bocha savorare”! Ecco la rima-segnale che indica il momento in cui il coro deve, per l’appunto, riprendere la “ripresa” continuando la rima -are con il ritornello: “Pur bii del vin, comadre, e no lo temperare, ché, (se) lo vin è forte, la testa fa schaldare”. In questa maniera la canzone da ballo giungeva, stanza dopo stanza e ripresa dopo ripresa, alla conclusione.
Spesso è stato ipotizzato che quando la ballata era così descrittiva all’interno della rota venissero eseguiti balli con movenze che ricordavano i gesti contenuti nei versi e cantati dal solista. S’intende bene che, con l’andar del tempo, la ballata dové finire per rivestire delle materie indipendenti dalla danza e divenire un genere musicale o puramente letterario, ma la più notevole trasformazione della Ballata avvenne verso la metà del XIII secolo quando nacque la Lauda, ossia una Ballata religiosa. La chiesa aveva forse finalmente capito la potenza e l’importanza di tali antiche musiche e danze, ma non riuscendo a strapparne le profonde radici ancestrali, decise di accettarle facendone di proprie.
Dal nostro disco “Dançando la fressca Rosa” ecco la nostra versione di “Pur bii del vin, comadre”.

Pur bii del vin, comadre

Tomba delle Danzatrici, dettaglio - Ruvo di Puglia, circa V secolo
Ambrogio Lorenzetti, Allegoria degli Effetti del Buon Governo in Città, dettaglio - Siena, 1338-1339.
Beato Angelico, Giudizio Universale, dettaglio "danza dei Santi" - Firenze, 1431 circa.

Dança Mantovana - Ms. Nouvelles Acquisitions Françaises 7516

Seguramente vegna... - Memoriale bolognese 67, 1287, Nicholaus Iohanini Manelli, c. 121v
Ella mia dona çoglosa

Pur bii del vin, comadre - Manoscritto dai Memoriali Bolognesi
Ballata "Ella mia dona çoglosa..."
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